Il laboratorio ha un grande orologio.
È appeso sulla parete di fronte, col quadrante mastodontico dai bordi d’argento che ci occhieggia mentre iniziamo il lavoro della giornata, nel silenzio dell’alba appena spuntata oltre la finestra.
Tutto è quiete; eccetto quei “tacchete” regolari che tagliano i secondi, i minuti, le ore.
Tra tutti gli strumenti che vivono il laboratorio, l’orologio è l’unico ad essere sempre indispettito; quasi corrucciato, vi direi. Al motivo ci ho pensato molto, ma ammetto che fino a qualche migliaio di “tacchete” fa, non avevo capito proprio niente; poi un giorno il mastro ha portato sotto il braccio quello che credo si chiami “giornale”. E fra le righe minute nere, c’era un’immagine. Non ricordo esattamente cosa fosse, ma sotto si leggeva “Senza tempo”.
Signori e Signore, io non sono altro che un pezzo di stoffa, e ho un’etichetta per certificato di nascita. Ma posso dirvi che a dispetto degli slogan, delle massime e delle scatolette al plasma, il tempo ci accompagna sempre.
A confermarmelo c’è sempre lui, l’orologio, e quelle sue sopracciglia di lancetta sempre angolose. Ho capito che non è corrucciato: è semplicemente sempre attento. Sempre attivo, sempre presente.
Senza tempo… non esiste nulla.
Quello che cambia, per alcune cose, è la loro capacità di sopravvivere al suo avanzare di cometa.
Ad una assisto ogni giorno: è l’arte del mastro, nata migliaia di anni fa da chi per curiosità incrociò la farina con l’acqua.
L’orologio lo sa, e forse è per questo che sembra incitare al lavoro, ad allungarsi oltre ogni secondo sin da quando il laboratorio inizia a tingersi dell’alba.
Siamo io e il mastro.
Lui, viso aperto e mani già operose; io, una vedetta di stoffa.
E se vorrete, sarò i vostri occhi per cantare tutto quello che accade dentro ad un morso.